QUEL DANNATO SOVRANISTA DI KEYNES
"Che cosa credevano di fare i liberoscambisti del secolo XIX, che erano i più idealisti e disinteressati tra gli uomini? Essi pensavano, e forse è opportuno cominciare con questo, di essere persone perfettamente ragionevoli, le uniche a veder chiaro; credevano inoltre che le politiche che cercavano d'interferire con l'ideale divisione internazionale del lavoro fossero sempre prodotto di ignoranza, frutto a sua volta di un egoismo cieco.
In secondo luogo essi credevano di risolvere il problema della povertà, e di risolverlo per tutto il mondo, utilizzando al meglio, come una buona massaia, le risorse e le capacità presenti sulla terra.
Erano convinti, infine, di essere gli amici e i garanti della pace, della concordia internazionale, della giustizia economica tra le nazioni e i propagatori dei benefici del progresso. (…)
La protezione degli attuali interessi stranieri di un paese, la conquista di nuovi mercati, il progresso dell'imperialismo economico sono una parte difficilmente evitabile di un sistema che punta al massimo di specializzazione internazionale e di diffusione geografica del capitale, a prescindere dalla residenza del suo proprietario. Sarebbe più facile realizzare opportune manovre interne di politica economica se, per esempio, potesse essere impedito il fenomeno conosciuto come «fuga dei capitali».
Il divorzio tra proprietà ed effettiva responsabilità della conduzione di un'impresa è già preoccupante all'interno di un paese quando, come risultato del capitale azionario, la proprietà è spezzettata tra innumerevoli individui, che comprano la loro quota oggi e la rivendono domani e che mancano, nell'insieme, sia della conoscenza che della responsabilità nei confronti di ciò che essi momentaneamente posseggono. Ma quando lo stesso principio è applicato su scala internazionale esso è, in periodi di difficoltà, intollerabile: io non sono responsabile di ciò che posseggo e coloro che gestiscono la mia proprietà non sono responsabili nei miei confronti. (…)
Idee, conoscenza, arte, ospitalità, viaggi: queste sono le cose che per loro natura dovrebbero essere internazionali. Ma cerchiamo di far sì che i beni vengano prodotti al proprio interno quanto più ragionevolmente e convenientemente è possibile; e soprattutto che la finanza sia essenzialmente nazionale. (…) la politica tesa ad aumentare il grado di autosufficienza, dev'essere considerata non come un ideale in sé stesso, ma come uno strumento finalizzato alla creazione di un contesto nel quale altri ideali possono essere perseguiti nel modo più sicuro e conveniente. (…) fino a poco tempo fa noi abbiamo ritenuto che fosse un obbligo morale quello di mandare in rovina gli agricoltori o distruggere lontane tradizioni legate al lavoro nei campi se questo ci avesse permesso di risparmiare un decimo di penny su una pagnotta di pane. (…) Oggi noi soffriamo di una disillusione, non perché siamo più poveri di quanto fossimo in passato, perché al contrario, (…) godiamo anche oggi di un tenore di vita più elevato, ma perché altri valori sembrano essere stati sacrificati e, ci sembra, in maniera ingiustificata. (…) È lo Stato, piuttosto che l'individuo, che deve mutare i suoi criteri. È la concezione del Cancelliere dello Scacchiere [ = Ministro delle Finanze] come presidente di una sorta di società per azioni che deve essere abbandonata.”
(da John Maynard Keynes, “Autosufficienza nazionale”, in “La fine del laissez faire ed altri scritti”, Boringhieri, Torino 1991, pp. 87-100)
riproposto da Andrea Zhok
"Che cosa credevano di fare i liberoscambisti del secolo XIX, che erano i più idealisti e disinteressati tra gli uomini? Essi pensavano, e forse è opportuno cominciare con questo, di essere persone perfettamente ragionevoli, le uniche a veder chiaro; credevano inoltre che le politiche che cercavano d'interferire con l'ideale divisione internazionale del lavoro fossero sempre prodotto di ignoranza, frutto a sua volta di un egoismo cieco.
In secondo luogo essi credevano di risolvere il problema della povertà, e di risolverlo per tutto il mondo, utilizzando al meglio, come una buona massaia, le risorse e le capacità presenti sulla terra.
Erano convinti, infine, di essere gli amici e i garanti della pace, della concordia internazionale, della giustizia economica tra le nazioni e i propagatori dei benefici del progresso. (…)
La protezione degli attuali interessi stranieri di un paese, la conquista di nuovi mercati, il progresso dell'imperialismo economico sono una parte difficilmente evitabile di un sistema che punta al massimo di specializzazione internazionale e di diffusione geografica del capitale, a prescindere dalla residenza del suo proprietario. Sarebbe più facile realizzare opportune manovre interne di politica economica se, per esempio, potesse essere impedito il fenomeno conosciuto come «fuga dei capitali».
Il divorzio tra proprietà ed effettiva responsabilità della conduzione di un'impresa è già preoccupante all'interno di un paese quando, come risultato del capitale azionario, la proprietà è spezzettata tra innumerevoli individui, che comprano la loro quota oggi e la rivendono domani e che mancano, nell'insieme, sia della conoscenza che della responsabilità nei confronti di ciò che essi momentaneamente posseggono. Ma quando lo stesso principio è applicato su scala internazionale esso è, in periodi di difficoltà, intollerabile: io non sono responsabile di ciò che posseggo e coloro che gestiscono la mia proprietà non sono responsabili nei miei confronti. (…)
Idee, conoscenza, arte, ospitalità, viaggi: queste sono le cose che per loro natura dovrebbero essere internazionali. Ma cerchiamo di far sì che i beni vengano prodotti al proprio interno quanto più ragionevolmente e convenientemente è possibile; e soprattutto che la finanza sia essenzialmente nazionale. (…) la politica tesa ad aumentare il grado di autosufficienza, dev'essere considerata non come un ideale in sé stesso, ma come uno strumento finalizzato alla creazione di un contesto nel quale altri ideali possono essere perseguiti nel modo più sicuro e conveniente. (…) fino a poco tempo fa noi abbiamo ritenuto che fosse un obbligo morale quello di mandare in rovina gli agricoltori o distruggere lontane tradizioni legate al lavoro nei campi se questo ci avesse permesso di risparmiare un decimo di penny su una pagnotta di pane. (…) Oggi noi soffriamo di una disillusione, non perché siamo più poveri di quanto fossimo in passato, perché al contrario, (…) godiamo anche oggi di un tenore di vita più elevato, ma perché altri valori sembrano essere stati sacrificati e, ci sembra, in maniera ingiustificata. (…) È lo Stato, piuttosto che l'individuo, che deve mutare i suoi criteri. È la concezione del Cancelliere dello Scacchiere [ = Ministro delle Finanze] come presidente di una sorta di società per azioni che deve essere abbandonata.”
(da John Maynard Keynes, “Autosufficienza nazionale”, in “La fine del laissez faire ed altri scritti”, Boringhieri, Torino 1991, pp. 87-100)
riproposto da Andrea Zhok
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